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Sulla sistematica disapplicazione della direttiva 1999/70/CE da parte della Regione Sicilia 

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Il firmatario denuncia la disapplicazione di fatto da parte del legislatore siciliano della normativa nazionale (decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368) che ha dato attuazione alla direttiva 1999/70/CE sui contratti a tempo determinato in tutto il territorio dell'UE, alla quale si contrappone una normativa regionale incompatibile con la disciplina comunitaria sul lavoro a tempo determinato. I lavoratori (oltre 5 mila) a cui si riferisce il firmatario sono pubblici dipendenti di comuni, aziende sanitarie, strutture ospedaliere di vario livello e altri enti di pubblica amministrazione, in primis la Regione Sicilia. In un primo tempo essi sono stati adibiti a lavori socialmente utili (LSU/ASU) o in progetti di utilità collettiva (PUC) per poi essere inquadrati come beneficiari di contratto di lavoro a tempo determinato, in forza di una marea di leggine che il firmatario elenca puntigliosamente dagli anni '90 a oggi. Tale legislazione regionale avrebbe consentito la reiterazione "nell'arco di 28 anni circa, dopo il 1990, di rapporti di lavoro subordinato a termine, in violazione della clausola 5 della direttiva 1999/70/CE (assenza di misure sanzionatorie degli abusi dei contratti a termine oltre 36 mesi)". In particolare, le critiche del firmatario si focalizzano sulla legge regionale del 28 dicembre 2004, n. 17, che i giudici siciliani userebbero come paravento per disapplicare la legislazione nazionale che ha dato attuazione alla direttiva comunitaria, ritenendo i lavoratori fuoriusciti dal bacino LSU-ASU (dei lavori socialmente utili) non sottoposti alla disciplina statale del lavoro a tempo indeterminato, in forza dell'articolo 77, paragrafo 2, della legge regionale del 28 dicembre 2004, n. 17. E a riprova dell'interpretazione fallace della giurisprudenza siciliana, il firmatario riporta la sentenza del 27 ottobre 2013, n. 25672, della Corte di Cassazione, che ha accolto il ricorso di un lavoratore precario siciliano che, svolgendo da anni mansioni ordinarie al servizio di un ente locale, chiedeva il riconoscimento della natura a tempo indeterminato del suo rapporto di lavoro, e per conseguenza il risarcimento del danno ai sensi della legislazione nazionale (T.U. pubblico impiego). La Suprema Corte ha così smentito la Corte di Appello di Palermo, che attraverso un'interpretazione erronea della causa del contratto in questione, "rinvenuta non in esigenze temporanee organizzative e produttive dell'ente locale, ma in esigenze di natura politico-sociale, volte a superare il rapporto assistenziale, proprio del lavoro socialmente utile, per far acquisire professionalità e qualificazione al personale in questione", invocava la clausola 2, lettera b), dell'accordo quadro annesso alla direttiva 1999/70/CE per giustificarne la disapplicazione.

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